Forum: Io scrivo così, e tu? Téma: Diario di guerra ------------------------ fiodor: Diario di Guerra – 29 settembre 2009 Ore 8:15, sono seduto al solito tavolo in fondo a destra della sala breakfast del residence in cui sono prigioniero da quattro settimane. Guardo un pò avvilito la fetta che, nonostante l’abbia appena tostata, mi restituisce una inaspettata mollezza e un colorito ancora troppo sul bianchiccio. Dovrei coprirla di nutella dalla vaschetta monodose, ma anche questa non va: mi si mostra sospettosamente fluida, quasi liquida e allora rinuncio. Prendo un cornetto, supposto contenere un ripieno all’albicocca. So che mi resterà sullo stomaco tutta la mattinata, ma in qualche modo devo dare una parvenza di festeggiamento a questo mio strano compleanno lontano da casa. Il cellulare mi vibra per un sms. Leggo. E’ nientemeno il capo che mi dà gli auguri: “enjoy the day” mi dice. Nei primi tempi, ingenuo, restavo sempre piacevolmente sorpreso da cose come questa. Poi ho fatto il capo per un pò, e ho capito come funziona: appena hai delle persone che ti riportano, l’Ufficio del Personale, che di solito brilla per la sua assenza, stavolta con inusuale solerzia ti invia la lista dei compleanni di tutti i tuoi riporti e ti invita a inserirli nel calendar di outlook con gli opportuni reminder. Così, nel fatidico giorno, tu capo sarai avvisato automaticamente della ricorrenza e l’impiegato potrà ricevere, tra i primi, i tuoi auguri e per estensione dell’intera compagnia, su su fino al CEO. Che emozione, e che motivazione che ne ricaverà!Vedrai come galoppa poi! E’ così che si gestiscono le persone! Avverto un pò di voltastomaco, non so se per il “gustoso” ripieno all’albicocca o per reazione a quegli auguri così falsi e incoerenti. Premo il tasto rispondi, cambio la lingua di scrittura a inglese e comincio a suggerire al mio capo un posto dove vorrei si ficcasse allegramente quegli auguri. E poi gli dico che questa giornata io l’avrei “enjoyata” sul serio se lui e il resto di questa combriccola folle non mi avesse costretto a rilocarmi a 700km da casa così, da un giorno all’altro e senza scelta ... e che, tra l’altro, questa rilocazione non ha nemmeno senso dal punto di vista lavorativo, che avrei potuto tranquillamente continuare a lavorare da dove l’ho fatto negli ultimi 5 anni senza nessun impatto sulla qualità del lavoro, anzi ... e che questa cosa ha il solo scopo di assecondare il gioco di potere di alcuni personaggi che, quelli si, invece, andrebbero attentamente valutati ... Mi arriva un altro sms. E’ mio figlio che, tra gli auguri, mi dice che manco tanto a tutti, lì. Mi ritorna in mente mia moglie che, appena prima che ripartissi l’ultima volta, tra un bacio e l’altro si è raccomandata: “stai calmo, pensa prima di reagire, tieni presente che, anche se brutto, quello che hai è tutto quello che hai”. Mi ritorna in mente l’articolo sulla Repubblica di ieri con le lettere dei licenziati, dei precari. Ancora voltastomaco. Ritorno all’sms che stavo scrivendo, lo cancello tutto. Lascio perdere il mezzo cornetto rimasto nel piatto e già aggredito da una mosca, prendo un ultimo sorso di caffè macchiato, mi alzo e vado in ufficio. Let’s enjoy the day. fiodor fiodor: Diario di Guerra – 5 ottobre 2009 E’ troppo piccola, la piazzetta del paese. Il paese, poi, è praticamente tutto qui. Una passeggiata di una decina di metri. La piazzetta con la fontana e l’edicola. Una folla di anziani, soli, e di mamme giovani con figli piccoli. Biciclette sfrecciano agili. I bambini ridacchiano. Le mamme chiacchierano. Bel quadretto, ma sembra finto. Io sfoggio giacca, cravatta e scarpe da “meeting col cliente”, per l’occasione: qui bisogna apparire bene, altrimenti non si passa la selezione e l’appartamento manco te lo propongono. La prima impressione che fai al proprietario è fondamentale. Ci penso mentre mi avvicino al luogo dell’appuntamento, e mi intristisco. Quanti altri esami dovrò sostenere in questa vita, fino a quando, e perchè poi? La proprietaria arriva trafelata, un pò in ritardo, all’appuntamento. Dice: “è qui a due passi, andiamo a piedi!”. Sarebbe stato difficile immaginare qualcosa che non fosse “a due passi” da qui. Tutto il paese è a due passi. A tre passi siamo già nel comune limitrofo. Dalla direzione presa dall’energica signora intuisco il palazzo a cui siamo diretti. Mura scrostate, al balcone del piano rialzato un anziano posteggiato chissà da quanto tempo al balcone ci osserva tutti con una espressione leggermente disgustata. “Questa è una tipica Casa di Corte lombarda”, mi istruisce la proprietaria. Intuendo, forse dal mio accento, che io possa non avere la minima idea di cosa mi aspetta, mi spiega tutta allegra: “Queste case hanno tutte la porta d’ingresso su un ballatoio in comune al piano, vede? E hanno in comune la corte, appunto”, mi fa, indicano un cortile circolare con fondo in ghiaietta, in cui sono stipate una decina di automobili. Poi, con atteggiamento alla Piero Angela: “In origine, tutte le case di uno stesso piano, della stessa ringhiera insomma, avevano un unico bagno in comune, il bagno della ringhiera, appunto”. Poi, sorpresa dalla mia reazione facciale, evidentemente malcelata: “Ma adesso, le abbiamo ristrutturate tutte e ciascun appartamento ha il suo bagno privato”. Bè, che fortuna!, penso rassicurato. Entriamo. Un corridoio con a sinistra una cucina che sarà un metro e mezzo lineare, a destra un tavolo con due sedie. Tra i due, giusto lo spazio per una persona. Così, procediamo in fila indiana. Il frigorifero è troppo alto, e aprendolo sbatte al lampadario. Il bagno si apre sulla sinistra subito dopo il frigorifero: in realtà è un altro corridoio per una persona. E poi la stanza. Cioè, uno slargo un pò più largo del corridoio/cucina/sala da pranzo, con giusto lo spazio per il divano-letto e di fronte l’armadio/mobile del soggiorno. Basta. Uno sguardo semicircolare di tre secondi e ho visto tutto l’appartamento. Provo ad aprire il divano letto e quasi sbatto all’armadio/mobile del soggiorno. Se si apre non ci si può più muovere in casa. La proprietaria sfoggia di nuovo il suo intuito (oppure io proprio non riesco a mascherare le mie reazioni) e mi risolve il problema: “tanto lei lo apre quando deve dormire e lo richiude quando si sveglia”. Già, stupido a non averci pensato. Non c’è box per l’auto nè è possibile aggiungerla alla decina già parcheggianti nella “corte” perchè, mi spiega cercando comprensione: “qui i proprietari sono molto scrupolosi, e ammettono solo un posto per casa. Per questo appartamento il posto auto serve a me che ho il negozio proprio qui sotto, vede?” Questo gioiellino viene 470 Eurini più spese, ma solo perchè io sono “una persona referenziata e presentata da amici”. Le dico che secondo me chiede troppo. “Ma qui lei è al centro!” mi spiega indignata dalla mia protesta, “e col metrò in quaranta minuti è a piazza Duomo”. Penso sia fuori di testa. Vorrei spiegarle che il “centro” che tanto enfatizza non è esattamente Piazza Navona. E che quaranta minuti da Piazza Duomo mi sembrano eccessivi comunque, col loro fantastico metrò la cui stazione è comunque a due chilometri da qui. Che maledico ancora una volta le “circostanze” che mi hanno costretto a venire in questo posto infelice, e che mi costringono, dopo un mese e mezzo, ancora a farmi raccomandare per essere ammesso solo a visitare un appartamento come il suo. Che a casa mia non dico il centro, ma anche la periferia è mille volte più colorita e allegra, che l’aria è mille volte più pulita e fresca e le case mille volte più belle. Ma capisco il rischio di essere frainteso, e scambiato per il solito “terrone” che non riesce a staccarsi dalla sua terra. Allora sorrido, ringrazio, prometto una telefonata con una decisione a breve, abbasso gli occhi e vado via. fiodor: Diario di Guerra – 15 ottobre 2009 Prendo le scarpette da jogging, con cura ... le calzo lentamente, gustandomele per bene ... è come ritrovare un vecchio amico che si era perduto di vista, e in un attimo ritornare al tempo andato della fusione d’intenti, delle intese con un cenno, delle condivisioni totali ... le scarpette sono bucate in punta per il troppo uso, mi spuntano i ditoni bianchi dei calzini di spugna, ma non le cambio ... mi sembrerebbe di perdere memoria di tutti i chilometri fatti assieme, dei nostri percorsi, della nostra pineta. E invece, ora, ho più che mai bisogno di tenerli, di fissarli quei ricordi. Mi sembra impossibile che sia riuscito, una volta tanto, a lasciare l’ufficio in tempo per farmi una corsetta prima che caschi il buio padano, che in questi paesucoli annebbiati è improvviso e totale. Finalmente un pò di jogging ... sono due mesi che non corro, che sto fermo ... o meglio, che tutta la vita (a parte il lavoro) si è fermata ... niente jogging, niente chitarra, niente musica, niente scrittura, niente figli accompagnati al mattino, niente “com’è andata oggi a scuola?” durante il pranzo, niente caffè con chiacchiere e qualche risata con la moglie dopo pranzo, niente film visti assieme la sera sdraiati sul divano (magari addormentandocisi) ... niente più di niente. I due mesi di fermo si fanno sentire, e dopo dieci minuti già sbuffo. Questo paesucolo ha quattro strade in croce, però ciascuna ha la sua bella pista ciclabile. Le bici che mi sfrecciano periodicamente accanto mi riportano alla mente il Crotalo, non chiedetemi perchè. Dicesi Crotalo il viscido, il falso, il potente che ti abbindola e ti schiaccia pretendendo che tu sorrida e ringrazi pure ... ce n’è almeno uno in tutti gli uffici ... come il rettile da cui prende il nome, il Crotalo ti distrae con il suono dei suoi sonagli: l’ostentata apertura apparentemente sincera, l’occhiolino complice, la pacca sulla spalla, il sottobraccio, l’apparire inoffensivo, assolutamente leale ... e poi ti attacca, veloce e inesorabile, col suo morso velenosissimo quando i sonagli hanno fatto il loro lavoro ... e a te non rimangono che pochi secondi per chiederti stupito come tu abbia potuto cascarci ancora, maledetto stupido, illuso e ingenuo. Sono stanco di abbozzare sempre mezzi sorrisi, non reagire agli attacchi, passare ad altro come se non avessi sentito. L'accondiscendenza non è il modo in cuisi vince questa guerra, nemmeno la si pareggia. La si perde, così come ho fatto finora. Checchè ne pensi Dale Carnegie. Quando siamo stati a Siena, qualche settimana fa, mio figlio mi ha regalato una cartolina con la bandiera e l’effige della Contrada della Civetta. La Civetta è la contrada che ha vinto l’ultimo Palio. Regalandomi quella cartolina, quel simbolo che ha trionfato, penso che lui mi abbia voluto augurare, a suo modo, la vittoria in questa guerra che ci è scoppiata all’improvviso. Poi ho pensato che potrebbe avere un significato nascosto, più profondo: la civetta è un rapace. I serpenti hanno solo due nemici: la mangusta e ... i rapaci. David nelle cuffiette canta: "Where we start is where we end". Ha ragione. Si comincia da dove si finisce. Oggi comincia la mia nuova guerra da dove ho finito quella vecchia. Crotalo, hai trovato il tuo nemico. Chiamatemi The Owl, d’ora in poi. fiodor: Diario di Guerra – 28 ottobre 2009 Così non ne esco. Fisso la piastrella beige del muro a cui il tavolo è appoggiato per il lato lungo. Io sto da quest’altra parte, spalle alla cucina lineare di legno azzurrognolo, un pò countreggiante. E perciò quando alzo lo sguardo, fisso la piastrella. Sempre la stessa piastrella, quella con l’angolo in basso scheggiato. Ormai ci conosciamo bene, potrei anche pensare di conversarci. Mi viene in mente Tom Hanks naufrago in Cast Away che parla con il pallone. Lascio perdere. La mia mensa stasera è fatta da una tovaglietta, un bicchiere di plastica, un tovagliolo di carta, una forchetta, un vino nel brick tetrapak e il contenitore in plastica con una generosa porzione di pasta al forno e due polpette tutte shiacciate per farcele entrare. Non mi prendo nemmeno la briga di riporre il cibo in un piatto o di riscaldarlo, mangio direttamente dal contenitore, così, appena scoperchiato. Torno qualche ora indietro e rivedo la moglie stipare quel cibo nel contenitore. Quanti sentimenti, quanti stati d’animo in quei gesti: tristezza, rassegnazione, ma anche incoraggiamento, esasperata cura quale dimostrazione d’amore, di vicinanza. Quelle polpette vogliono dirmi: non sarai mai veramente solo. Andrea è una persona semplice. Ha questo appartamento, niente di particolare e messo nel buco del culo del mondo, però ce l’ha. E ha una sua storia, come tutti noi. Questa storia ha fatto sì che questo appartamento diventasse all’improvviso troppo grande. E allora ha deciso di condividerlo. Con me. Perciò una sistemazione, seppur temporanea, seppur scomoda (la convivenza non fa per me, temo sempre di molestare o disturbare troppo e non riesco a rilassarmi), seppur non ideale, l’ho comunque trovata. Il Crotalo non è stato ancora sconfitto. Però la guerra è cominciata. Sto studiando il campo di battaglia, sto capendo come muovermi, qualche alleato forse l’ho fatto, qualche buon colpo l’ho inferto, qualcun altro sono riuscito a pararlo. Insomma, c’è ancora bisogno di molto tempo, ma almeno The Owl si è svegliato, è passato all’azione. E allora, perchè ancora questo freddo dentro, questa sensazione di vuoto, di non-vita? Ci penso. Io ‘sta cosa la vedo come fossi al cinema. Come se fosse successa a un altro me che osservo. Come fossi in terza posizione. Con partecipazione, ovviamente, perchè poi le cose le sento. Ma senza consapevolezza. Mi manca la consapevolezza che deriva dall’accettazione del fatto. Ecco, io non ho accettato ancora ciò che è successo. Perchè non ne capisco il senso, perchè è ingiusto, perchè è un errore, perchè si sarebbe potuto evitare, perchè si sarebbe dovuto evitare. L’altra sera Andrea ha comprato castagne e vino, abbiamo mangiato e chiacchierato. Lui sta cercando di farsi trasferire in Asia. Perchè, mi ha detto, una volta lì ha in piano di dimettersi dal lavoro dipendente attuale e mettersi in proprio. Perchè qui è quasi impossibile da farsi, mentre lì ci sono tutte le opportunità per poterlo fare. Perchè altrimenti, mi ha rivelato, “ho paura che prima o poi mi fanno qualcosa di simile a quello che hanno fatto a te”. No, non l’ho accettato ancora. E così non ne esco. fiodor: Diario di Guerra – 5 novembre 2009 Quattro ore di auto e raggiungo la Rocade Sud. Una stupidata per me, ormai abituato a ben altre “tirate”. Solo che ci arrivo intorno alle 18:30, in mezzo al cosiddetto “rush-hour” e perciò sulla Rocade Sud ci sta praticamente mezza cittadinanza di Grenoble. Distribuiti uno per mezzo, naturalmente. Tutti lì per me? Avrei fatto volentieri a meno di questa accoglienza così affollata. Sicuramente non calorosa, perchè fanno 8 gradi, piove e c’è una nebbiolina brughieriosa e smoggeggiosa che ci avviluppa tutti, qui. Ho scelto Guccini quale sottofondo a questo viaggio. Mi ripeto, sarà la milionesima volta, che Guccio è proprio grande. In mezzo a ‘sta coda sulla Rocade Sud arriviamo a Radici e La Locomotiva. Questa canzone si porta dietro una miriadi di ricordi. Rivedo i concerti a cui faceva da chiusura, con inevitabile coro e pugno alzato di tutti noi. Risento le volte che l’ho rifatta sulla chitarra acustica, nelle notti di occupazione della scuola. Rivivo quando, più recentemente, l’ho fatta sentire a Francesco per la prima volta. Fino ad allora, nel processo (forse malato) di “indottrinamento musicale” a cui l’ho sottoposto, gli avevo “somministrato” solo Folk Beat N.1 e Due Anni Dopo, in ordine strettamente cronologico. Lui era rimasto particolarmente colpito da Primavera Di Praga. Era arrivato il momento della Locomotiva: l’abbiamo ascoltata assieme, gliene ho letto il testo e spiegato la storia, l’abbiamo vissuta. L’ha subito imparata a memoria, è stato tre giorni a metterla di continuo. Passando nel corridoio, la sentivo fuoriuscire ogni tanto dalla porta chiusa della sua stanza, con lui che ne urlava il testo a squarciagola. Riascoltandola e ricordando, mi commuovo, così come uno stupido da solo in macchina bloccato sulla Rocade Sud. Io non sto bene. Il vicino di coda, raggrugnito dall’impazienza, mi scorge tra la nebbia e la brina dei finestrini, e scioglie un pò il grugno, quasi volesse tentare di rasserenarmi. Mi imbarazzo e volto lo sguardo. Mi mancano quei momenti di condivisione quotidiana. Mi avvilisce la consapevolezza di averli perduti per sempre. Naturalmente, altre quotidianità stanno piano piano prendendo il posto di quelle. Ma sono quotidianità solitarie, non-condivise, non-interattive. L’unica che è rimasta condivisa (per cinque giorni su sette) è la telefonata delle 20, che però per forza di cose si riduce a una lista di: “come stai?”, “come state?”, “ci sono novità?” eccetera. Cioè, è la verifica di una checklist, in realtà. Le logiche aziendali mi restano incomprese e misteriose. L’albergo che la compagnia si può permettere in periodo di crisi è un due-stelle. Posto infimo in periferia, camera minuscola e triste, sanitari scrostati. Ma, almeno ha il ristorante interno così non mi devo scaracollare di nuovo nel traffico sotto la pioggia insistente per cenare. Nella sala c’è una lunga tavolata aziendale. Saranno una decina di persone. Il capo si riconosce subito, perchè: a. è sistemato in posizione strategicamente centrale b. è l’unico che parla con la cameriera, sceglie il vino e ordina per tutti c. di fronte a lui è seduta l’unica femmina della compagnia, che è una tipa ho-quarant’anni-ma-ne-dimostro-venti-infatti-vesto-come-mia-figlia. Man mano che ci si allontana dal capetto, l’entusiasmo dei banchettanti decresce esponenzialmente. Fino ad arrivare a quelli più esterni, i più lontani: praticamente non dicono parola, non coinvolti in alcuna conversazione. Aria rassegnatamente dimessa, i loro sguardi perennemente nel piatto. Il capetto si lancia in uno show personale, che nei suoi piani deve essere il momento topico della serata, per agganciare ulteriori consensi dei sottoposti. Sta raccontando, a voce esageratamente alta, di una sua negoziazione particolarmente difficile che naturalmente si è conclusa con pieno successo e soddisfazione. Nel mezzo dello show, uno dei più esterni, evidentemente stufo, si è come distratto (dissociato?), ha guardato in giro, di lato, e i nostri sguardi si sono incontrati per un attimo. Mi è sembrato di cogliere una richiesta in quello sguardo, una richiesta di comprensione, tipo: “ma, capisci cosa mi tocca fare?”. Ma forse mi sono sbagliato, sarà solo che in questo periodo sono particolarmente sensibile a queste cose. Ho dato un ultimo sorso al Pastis, ho azzardato un “au revoir” alla cameriera e sono risalito in camera. catia: fiodor ha scritto:Diario di Guerra – 5 novembre 2009 Io non sto bene. ... ... ... altre quotidianità stanno piano piano prendendo il posto di quelle. Ma sono quotidianità solitarie, non-condivise, non-interattive. L’unica che è rimasta condivisa (per cinque giorni su sette) è la telefonata delle 20, che però per forza di cose si riduce a una lista di: “come stai?”, “come state?”, “ci sono novità?” eccetera. Cioè, è la verifica di una checklist, in realtà. Il diario di fiodor potrebbe essere lo speculare del mio. Io però non ce la faccio nemmeno più a scrivere, se non lettere per lo più senza risposta. Leggere questo mi fa sentire meno sola. Grazie, Antonio. Non credo al mezzo gaudio, sento solo il male comune. E che male. Che male. fiodor: Diario di Guerra – 13 novembre 2009 Ore 20:30. Guido da sette ore. Come ogni venerdì. Sono quasi a casa, ormai. Il peggio è passato. Penso. La statale è un pò buia. Decisamente sgombra. Non è bene, quando c’è un minimo di traffico sei costretto a tenere il livello di attenzione alto. Vasco urla “siamo soli”. Una curva, una delle innumerevoli. Passo un’auto accostata sul ciglio, nel buio. Penso cosa starà a fare lì, nel buio. Un attimo, un battito di ciglia e mi trovo sopra la rotonda. Cioè: non è che “imbocco” la rotonda, mi ci trovo proprio sopra, all’improvviso. D’istinto freno, fortuna che non sterzo. La passo attraverso comunque, solo un pò spostato rispetto al centro ipotetico del cerchio, ne prendo in pieno il cordolo con i pneumatici di sinistra. L’auto si ferma subito dopo aver attraversata quella che andrebbe invece circumnavigata. Abbaglianti accesi, tergicristalli in azione, mani saldate al volante, livello adrenalico esaltato. Resto così per parecchi secondi. Poi mi ricordo di respirare. Entrambi i pneumatici di sinistra scoppiati. La parte sinistra della carrozzeria “grattata” dall’asfalto. Niente altro. Il tizio del carro attrezzi mi dice che sono stato fortunato due volte: anzitutto perchè non ho provato a sterzare che, sull’asfalto viscido di brina serale, mi avrebbe fatto sbandare di sicuro e probabilmente ribaltare. Secondo: perchè nella rotonda non c’era nessuno oltre la mia macchina impazzita. Mi faccio un film esageratamente pessimista. Vedo l’auto ribaltata, le mie borse indifese sventrate, le camicie sparse sulla strada, gli spartiti portati per suonare con Laura si attaccano all’asfalto umido. Vedo Nunzia che prepara la cena nella nostra cucina calda, dà un’occhiata all’orologio alla parete e pensa: “tra un pò Antonio sarà a casa”. Francesco è stravaccato sul divano della sala a guardare la TV, Laura seduta al tavolo della cucina a finire i compiti. Uno squillo, una voce sconosciuta, professionalmente fredda dice cose inascoltabili, e gli occhi sbarrati, i singhiozzi, le urla. Vedo gli amici, qualcuno distrutto, qualcun’altro solo seccato, le facce incredule dei colleghi. E voi, come avreste mai saputo voi, strani amici di rete, così vicini ma allo stesso tempo così lontani? Ma è un film, solo un mio film. Pensando di vincere una piccola battaglia (passare almeno il fine-settimana a casa in famiglia) potevo anche perderla del tutto, ‘sta guerra. Il nemico è ben più astuto di quello che avevo immaginato. Perdi anche quando pensi di star vincendo. Devo essere più sveglio, più freddo, più intelligente. catia: fiodor ha scritto:Pensando di vincere una piccola battaglia (passare almeno il fine-settimana a casa in famiglia) potevo anche perderla del tutto, ‘sta guerra. Succede quando il cuore arriva prima del cervello. Si vive trascinati da questi due cavalli, cercando di bilanciarne il tiro o assecondarli opportunamente. E beato chi sa tenere saldamente le briglie ... fiodor: Diario di Guerra – 8 dicembre 2009 Da giovane, non riuscivo a immaginare come potesse essere quest’età. Non riuscivo proprio a immaginarmi con i capelli corti, o, peggio, con i pochi-capelli-e-pure-corti che ora mi ritrovo. Non riuscivo ad immaginarmi, io ribelle e anarchico, nel ruolo di papà prudente e saggio. Io che sognavo New York, o al limite, imbracciata la mia chitarra, Nashville, non riuscivo proprio a immaginarmi nella città-paese in cui viviamo, ancora con i miei amici di allora ma a giocare a tombola invece che a progettare fughe on-the-road in stile Kerouc. Così, pensavo di morire prima. Oppure che, per qualche strano sortilegio, a un certo punto della mia vita avrei fatto una specie di salto nel tempo, per giungere d’un botto all’età in cui, capelli bianchi e pieno di acciacchi, avrei chiuso gli occhi per riposarmi. Amen. Invece, eccomi quasi d’improvviso a ‘st’età stranissima, di cui non riesco a capire il senso. Un’età di bilanci. Ingegneristicamente, evito le sensazioni e analizzo i dati, peso i plus e i minus. La laurea mi ha costretto ad azzerare qualsiasi forma di attività extra-studio, a rinunciare a cose che le fai a quell’età oppure le perdi per sempre. Mi ha regalato una conoscenza poi persa per non utilizzo e un lavoro in multinazionali che ti miraggiano con mansioni dai nomi anglosassoni e tecnologici che poi si rivelano di fatto meramente impiegatizie, una carriera che poi non fai se non appartieni alla cerchia di amici di amici, e la flessibilità che poi in realtà si rivela essere la vecchia, cara nemica emigrazione. Secondo il senso comune, un ingegnere dovrebbe diventare “ricco” o quantomeno “benestante”. Il mio stipendio impiegatizio non mi ha permesso di essere nè l’uno nè l’altro, se è vero che sono bastate le spese impreviste di Francesco studente-fuori-sede-a-Roma e mie lavoratore-emigrato-a-Milano per far andare in crisi il sistema economico familiare. Certo la scelta di Nunzia di rinunciare al lavoro e dedicarsi alla famiglia ci ha regalato probabilmente figli più coccolati e felici, però: quanto sarebbe felice Laura se le dovessimo prospettare la rinuncia alla vacanza a Disneyland Paris l’anno prossimo? Preferirebbe, anche solo per un attimo, una mamma meno presente e dedicata ma con introiti tali da permetterle quella vacanza comunque? Posseggo l’appartamento in cui viviamo. Anche mio padre, che non si è mai diplomato e ha fatto l’operaio tutta una vita, possedeva l’appartamento dove vivevamo, che era grande due volte questo ed era nel centro storico di una grande città, dunque di valore intrinsecamente maggiore. E non ho più sogni, progetti. Volevo suonare, scrivere, magari avere un buco in campagna. L’unica cosa a cui riesco a pensare è prendere qualche giorno di ferie per poter stare a casa. “Gran sballo”, direbbe Boris di Radiofreccia. Vorrei ricominciare, ma, a parte la consapevolezza dell’impossibilità, ho paura che rifarei gli stessi errori. I sono di quei tipi che non imparano mai. E allora mi sa proprio che dichiaro “Bilancio rosso profondo”, dunque. In un guizzo finale, mi faccio prestare le parole da Edo e dico ad entrambi i figli: “Ma dopo quanto avete detto, io non posso più stare zitto e perciò prima che mi possiate fermare devo urlare, e gridare, io lo devo avvisare, di alzarsi e scappare, anche se si sente male, dai ... scappa ... scappa !!” fiodor: Diario di Guerra – 25 dicembre 2009 Trotterello, non corro. Il cenone di ieri sera fa sentire tutto il suo peso. Mi godo la quasi assoluta solitudine, assenza insolita di rumori che ne evidenzia alcuni, quasi persi. Dimenticati. La gente per lo più è ancora sotto i piumoni. Arrivo alla scogliera. Non mi dispiacciono i graffiti, però il disegno o il messaggio deve valere l’imbratto. Ecco, non mi sembra che: “con te sto 1 favola”, sprayzzato in blu sul bianco del masso della scogliera, sia un messaggio fondamentale da mandare al mondo; non vale la rovina di quel masso, non vale quel bianco sporcato. Al bivio tra la spiaggia e il porto scelgo la prima. Il porto sarà zeppo di scalmanati che, dimenticati i propositi di pace e fratellanza universale enunciati appena qualche ora fa, saranno pronti a farsi fuori l’un l’altro pur di accaparrarsi quel pesce; si, quello lì, proprio quello con l’occhio acquoso che ha tutta l’aria di aver tirato le cuoia da un bel pò, e ciononostante costa quanto una rata del mio mutuo. Ma si sa, a Natale quel che conta è apparire, anche a tavola. A Natale? Sempre, direi. Ecco che mi riviene ‘sto voltastomaco. Allora scelgo la spiaggia, cercando nella natura riparo dall’umanità. Il mare verde-grigio sembra svogliato. Si accartoccia sulla riva senza grande energia, quasi fosse costretto a quello spettacolo dalla presenza di un pubblico che però latita. Cosa mi ha portato Babbo Natale? Un pigiama, un maglione di pile, un libro (Ammaniti), un cavatappi ... un cavatappi? Si, un cavatappi. Tutto decorato stile Wild Wild West. Di metallo. E pesante. Non si sa mai, magari scarseggiano i duomi-di-milano e questo può venire utile per altri utilizzi. Bei regali, insomma. Nessuno per cui abbia urlato. Chessò, una Gibson SG Standard Heritage Cherry mi avrebbe fatto urlare. Ma costa più di mille euro. E poi, non ho più tempo per suonare, per studiare. Il bicchiere mezzo pieno, Antò, il bicchiere mezzo pieno. Allora: non avrei avuto posto dove metterla in casa. Si, perchè adesso abitare nella casa dei sette nani è una cosa positiva. Il bicchiere mezzo pieno, Antò, il bicchiere mezzo pieno. Allora: non ho talento, c’ho provato ma è inutile, al massimo posso strimpellare, sarebbe stato un gioiello di chitarra sprecata. Si, perchè adesso la consapevolezza di essere una schiappa è una cosa positiva. Ecco vedi, io non riesco proprio a vederlo ‘sto bicchiere mezzo pieno, so che esiste ma più come un atto di fede. Non lo vedo. Per quanto mi sforzi. Corro tra gabbiani che si accapigliano in cerca di cibo e di nuove gerarchie. Corro tra la plastica di bottigliette, piatti e rifiuti vari gentilmente forniti dalla stessa umanità di cui sopra, a cui, evidentemente, è impossibile sfuggire. Ho il fiatone e mi fermo, le mani nei fianchi. E’ dura da smaltire, la pasta di mandorle. Mi siedo sulla spiaggia. Ondeggio tra amici che brillano per la loro assenza e amici tanto presenti da risultare opprimenti, con cui devo stare attento altrimenti equivocano. Che ne è stata della buona, vecchia via di mezzo? La mia vita è sempre stata agli estremi, dunque: di che mi lamento? Cerco di individuare la nuova natura che i miei rapporti familiari dovranno necessariamente avere, a causa delle mutate condizioni al contorno. Immagino un futuro prossimo e poi un futuro più remoto, di continuo pendolarismo weekendaro oppure di una nuova situazione lavorativa a due passi da casa, oppure in un posto completamente diverso, un lavoro completamente diverso ... una nuova vita? Si può ricominciare tutto da capo? “Seconda stella a destra questo è il cammino e poi dritto, fino al mattino, poi la strada la trovi da te, porta all'isola che non c'è” Sogni, ancora sogni, Antò? L’isola-che-non-c’è non c’è, lo dici pure il nome! Ehi Negrita, riportatemi a casa, và. “Ay Que Pena La Vida!!!” Il bicchiere mezzo pieno, Antò, il bicchiere mezzo pieno! catia: fiodor ha scritto:Cosa mi ha portato Babbo Natale? Un pigiama, un maglione di pile, un libro (Ammaniti), un cavatappi ... Antonio, non c'entra niente o forse sì ... a proposito di regali, Ammaniti è arrivato anche a me. E lo sapevo. Perchè Ammaniti è stato da Fazio. E da qualche anno a questa parte, mia suocera mi regala il libro presentato nella trasmissione di Fazio durante il periodo natalizio. I più recenti sono stati 'La solitudine dei numeri primi' di Giordanol' anno scorso e 'Fuoco amico' di Yehoshua due anni fa. Per carità, mi ha fatto piacere leggerli, tanto più che io non li avrei mai comperati per una mia avversione nei confronti dei libri di cui si parla molto. Anche prima (diciamo da dieci anni a questa parte, va') la dolce vecchina mi regalava libri. Scelti di testa sua, però: magari con l' aiuto di Enrico, cui un paio di volte ho dovuto fornire una 'lista dei desideri' per evitare che mi arrivasse in casa Faletti. A volte mi veniva regalato il primo volume di una trilogia uscita fuori catalogo; o solo il secondo volume di una raccolta di poesie perchè il primo era irreperibile su tutto l' orbe terraqueo. Cose così. Però era meglio, perchè almeno avevo la sorpresa: ciò che amo di più nei regali. Invece adesso mi basta vedere chi va da Fazio e so già tutto, manco fossi la Sibilla Cumana. E quando scarto il pacchetto, mi tocca pure mascherare l' ironia sotto gli 'Oh! Ah! Proprio quello di cui parlavamo giorni fa! Ma lei signora ha degli informatori ...' Stessa storia per il compleanno: ci ho quasi completato la collezione dei Saramago, anno dopo anno. E iniziato quella di Fruttero&Lucentini. A volte vorrei tanto ricevere, chessò, un profumo, un paio di orecchini (finti, ovvio, mica ho grandi pretese) ... E invece, sempre 'sto pacchetto rettangolare con l' etichetta Feltrinelli. Arion, al più. Da dieci anni, Antò. A ogni Natale. E compleanno. A me, che compero più libri che calze nuove. Maigret: io fortunatamente non ho amici "accurturati" per cui non ricevo libri in regalo anzi, i miei amici non guardano nemmeno Fazio e quindi limito il rischio anzi, forse non ho nemmeno amici ma tanti conoscenti e, si sa, fra conoscenti non si scambiano regali l'unico regalo l'ho ricevuto da mio figlio, una cassettina di legno contenente attrezzatura da sommelier, termometro, cavatappi, salvagocce, tappi, ecc. inaspettato e apprezzato fiodor: Diario di Guerra – 31 gennaio 2010 Io sto a nord-est di Milano. Diciamo nella zona compresa tra le direttrici per Bergamo e Monza. Qui i nomi dei paesi hanno, invariabilmente, la desinenza -ago oppure –ate. Non ti puoi sbagliare. E’ tutto un fiorire di Bellinzago, Burago, Cambiago, Crescenzago, Cavenago eccetera, e Carugate, Vimercate, Gessate, Agrate, Masate eccetera. Ora che sto da solo mi sono spostato poco più in là di dove stavo con Andrea, ma ho mantenuto la desinenza. Certo, che creatività ‘sti lumbard! Oggi ho fatto due passi in centro per la prima volta da quando, due settimane fa, mi sono trasferito: la piazzetta, la chiesa, il bar, l’edicola, due panchine in croce. Cielo color latte. Mariti e mogli che si stringono sottobraccio, cercando invano di contrastare il gelo di questa domenica mattina di fine gennaio, mentre si avvicinano a passo svelto all’ingresso della chiesetta. Nessun giovane in giro. Nessuno chiacchiera. Nessuno si saluta, al più un cenno del capo. Tutti gli occhi in terra, veloci, che qui mica si sta a perder tempo, la messa comincia. La scenetta ha un gusto amaro e ancora mi sorprendo di come possa essere triste quella riservatezza, quella ricerca esasperata dell’efficienza che mai mi apparterranno. Nel nuovo condominio mi salutano tutti. Nessuno però che si presenti, vada oltre il buongiorno d’obbligo, di cortesia. Chessò: “Lei è il nuovo vicino? Piacere, io sto qui sopra di lei. Se ha bisogno, non si faccia scrupoli ...”. Così sono due settimane che non riesco a gettar via i rifiuti di vetro perchè non so dove sia il bidone della raccolta differenziata del vetro. Stamattina, esasperato, mi sono appostato con la mia busta di bottiglie vuote nel locale bidoni e ho atteso ... il primo condomino che, ingenuo, ha tentato di cavarsela col solito, veloce, sfuggente “buongiorno” è stato bloccato e inesorabilmente costretto a spiegarmi per bene dov’era situato il bidone del vetro e, visto che c’ero, anche quello delle lattine. Vittoria! Avreste dovuto vedere la faccia sbigottita, sorpresa del malcapitato, chè qui non è mica normale fermarsi a chiacchierare! Il proprietario dell’appartamento è un conoscente. A lui conviene mettere dentro casa una persona nota, che all’occorrenza gli lascerà l’appartamento praticamente senza preavviso. E, soprattutto, che non lo obbliga al contratto. Perchè così l’affitto può abbassarsi e lo rende non dico conveniente, ma almeno fattibile. Comunque con sforzo, però fattibile. La cucina è completa, alla camera da letto mancano i comodini, l’arredamento del soggiorno è un divano (!), quello del bagno è un armadietto (!!). Però c’è la lavatrice, un pò arruginita, però funziona. La casa avrebbe bisogno di una bella ripulita, mancano le tende, i lampadari, i sanitari andrebbero sostituiti ... ecco, diciamo che è un appartamento “basic” però va bene considerando che, nella mia ricerca, “ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare” ... Comincia così questa fase nuova della vita, single-per-forza in questo paesotto tra le direttrici per Bergamo e Monza, in questo condominio di “buongiorno” e “buonasera”, in questo appartamento basic, in questa domenica gelida di fine gennaio ... con questo buco qui nello stomaco, sempre lì ... domani è lunedì e mancheranno solo quattro altri giorni al ritorno a casa ... Sharie: Caro Fiodor, nel tuo bollettino di guerra mi sembra di rivivere parte della situazione che ho trovato quando vivevo a Milano. I condomini, però, essendo dentro i confini murari della città, non sempre salutavano e le chiacchiere a tempo perso mi sembravano concetti astratti. Dell'immondizia, poi, non ho mai saputo molto. Il mio coinquilino si occupava solo di quello. Lasciando a me e all'altra persona con cui dividevo casa l'incombenza di non lasciar marcire da nessuna parte i rimasugli dei suoi pasti... Casa mia era proprio così: un ambiente "basic", dove si trovava lo stretto necessario, si pagava un affitto alto, dichiarato dalla proprietaria per un terzo, e si litigava costantemente con questa perché voleva toglierci, di volta in volta, un divano, un tavalo, un armadio... Il colore l'ho portato io, appendendo foto e manifesti pubblicitari d'epoca alle pareti, perché trovavo penoso rientrare a casa la sera, dopo 8 ore d'ufficio, e sentirmi prigioniera di pareti spoglie. La mia nuova casa, quella in cui vivo da un anno e mezzo, è un monolocale piccolissimo, i cui muri sono stati tapezzati di foto, di locandine cinematrografiche e teatrali e di ricordi d'ogni genere. Alla finestra ho messo una tenda rossa che riscalda l'ambiente facendolo apparire tutt'altro che asettico, come era era all'inizio. Al momento, però, cerco nuovamente casa. Resto all'estero per qualche altro anno e vorrei vivere in un ambiente più comodo, perché non so dove la vita possa portarmi. Certo è che la malinconia si lascia cullare dalle visioni: come la luce d'orata del sole che filtra tra le nuvole che ricopre palazzi e alberi mentre fuori nevica. In bocca al lupo! fiodor: Diario di Guerra – 21 febbraio 2010 La noia. Può anche essere una malattia. Nel mio caso è sicuramente una malattia. Sorella della depressione da cui la divide solo un passettino. Mi sveglio presto anche senza sveglia. Chissà perchè. Ciabatto svogliatamente a fare il caffè (la rima è involontaria). Lo specchio del bagno mi restituisce uno sconosciuto mostro o giù di lì. Ho decisamente visto giorni migliori. Radendomi mi taglio. L’acqua della doccia si intiepidisce e ghiaccia alternativamente, mai calda (bollente sarebbe veramente troppo). Il caffè è venuto lasco e troppo zuccherato. Lo yogurt ha perso sapore. E non si può tornare a casa tutti i fine settimana. E devi riposare. E la stanchezza non si sente però si accumula. E sennò poi va a finire che ti ammazzi. E va bene. Però non puoi pretendere che mi diverta, che stia bene. Qui da solo, co’ ‘sto mostro che mi guarda sonnacchioso dallo specchio, ma che c’hai da guardare? La noia è una pianta sempreverde a crescita ciclica. Il seme è già piantato da tempo. Comincia la sua crescita repentina al mattino presto, specie in quei mattini in cui ti alzi senza sveglia. Poi ti invade tutto il corpo. Forma un gomitolo all’altezza dello stomaco. Che, per quanto ti sforzi, non va giù. Nè su. Sta lì, a bloccarti l’anima, a mangiarti le energie, come un morso che ti morde da dentro. Mi lascio trasportare attraverso questa giornata. Accendo la tv: in tutte le trasmissioni del mattino c’è questa signora boccoluta biondo-gialliccia, un pò ridicola nelle sue fattezze, che sembra abbia presentato il Festival nei giorni scorsi (peccato, me lo sono perso anche quest’anno!). In tutte le riprese che ripropongono lei è invariabilmente estasiata e molto emozionata. Poi si concentrano su un ragazzino tutto impostato che sembra abbia vinto. Non conosco le sue doti canore. A una prima occhiata mi appare falso, troppo già nella parte per uno della sua età. Poi compare un trio composto da: un sedicente cantante leggero di anni fa ora convertitosi in presentatore, un principe ereditario ora convertitosi in cantante, un cantante lirico ora convertitosi in ... non so cosa, dalla compagnia che frequenta direi: buffone. Mi sembra di capire che, incredibilmente, questa improbabile combriccola abbia partecipato alla gara e che addirittura sia arrivata a un passo dalla vittoria ... il male allo stomaco aumenta, spengo immediatamente. Leggo un pò. Mi chiedo: perchè se avessi scritto io la minuscola dopo il punto a scuola mi avrebbero segnato errore blu e invece se lo fa Bukowski è un genio? E poi, questo non riesce proprio a scrivere più di cinque parole senza infilarci un qualcosa di sessuale! Non che io sia puritano, però mi piacerebbe un punto di vista leggermente più allargato, possibilmente considerazioni anche su argomenti diversi dalla cosa della ragazza di turno.Via anche il libro, allora. Musica. Scelgo Wish You Were Here. Ricordo come fosse oggi quando l’ho comprato appena uscito assieme ad Enzo. Nella penombra di stanza sua, aprimmo con gran cautela la bustina di plastica sottilissima nera che lo avvolgeva, tirammo fuori questa copertina bianca con l’uomo in fiamme, mettemmo il disco sul piatto e dopo trenta secondi eravamo già nello spazio ... la parte iniziale di Shine On You Crazy Diamond con la chitarra di David Gilmour che avrei poi imitato tante volte ... Era il 1975, noi avevamo quindici anni e la vita e gli altri ci apparivano sì incomprensibili, difficili da affrontare ma comunque possibili ... come dire, era un gioco a cui sentivamo almeno di poter giocare. Ora mi sembra di aver finito di giocarci, a quel gioco, e di aver perso. La noia. E lo sconforto. Deve passare ancora mezza giornata, ancora tutto ‘sto tempo ... Sharie: Ultimamente quell'album lo ascolto spesso anche io. Forse perché ho troppe ferite sulle spalle ed ho deciso che Shine on you crazy diamond deve essere il manifesto di una rinascita che aspetto. La vita è infame, anche se ti aspetti momenti bui, sono sempre più pensanti di quanto si possano immaginare in un training psicologico che ci aiuti all'idea di affrontare i nostri demoni quotidiani. Stiamo lì, a fissare un punto e a pensare al peggio, sperando di toccare un ipotetico fondo immaginario e trovare le forze per rialzarci presto... e invece un'onda si abbatte su di noi e ci paralizza. Senza respirare, senza più forze per combattere la fisica e risalire, con la famosa spinta del principio di Archimede, restiamo immersi dentro questo mare che genera dolore. Eppure bisogna resistere. Bisognerebbe adottare quel serafico atteggiamento che sommi poeti come Virgilio e Leopardi attribuiscono alla ginestra che si piega davanti alla smisurata forza della natura, resistendo silenziosamente, e non spezzandosi mai. Coraggio!!! fiodor: Diario di Guerra – 04 marzo 2010 Una mail secca, quasi più insopportabile per la sua brevità che per il contenuto. “domani e per qualche giorno non saro' in ufficio, purtroppo mio marito non sta assolutamente bene e devo stare con lui in ospedale, Miriam.” Inviata alle 11 di sera, evidentemente collegatasi da casa. Miriam non è una milanese tipica, che in nome dell’efficienza magari risparmia sulle parole considerate “superflue”. Se ha mandato quel messaggio così diretto, freddo, ridotto all’osso della sola comunicazione utile è perchè è provata, esasperata, stanca. A fine mese Miriam andrà in pensione. Dopo quarant’anni di onesto, “onorato” (come si diceva un tempo) lavoro, Vi ho già detto che non è una milanese tipica? Lei non ha pensato: “oddio ora cosa faccio senza andà a lavurà?”. No, lei è tempo che sta pregustando ‘sto periodo della vita, che se lo sta organizzando per bene: finalmente potrà fare quel viaggio continuamente rimandato, occuparsi di quell’altra passione trascurata così tanto finora … e passare più tempo assieme al maritino, finalmente, che fino a oggi: prima i figli poi il lavoro … Anche il marito ha lavorato quarant’anni. E’ andato in pensione qualche mese prima di Miriam. Dopo pochi giorni ha avuto un infarto. Ora sta ancora combattendo con le complicazioni. E Miriam appresso. Ma che razza di scherzo del destino è questo? Si lavora una vita, spesso ingoiando amaro, a volte soffrendo, molte volte sacrificando (tempo, affetti, relazioni, passioni, sogni …) e quando finalmente ci si potrebbe rilassare un pò godendosi in pace i frutti prodotti … patatrac, ti arriva una mazzata del genere? Ehi, Burattinaio, lassù … questa è un’altra di quelle situazioni che ci devi spiegare … certo ne hai in lista di più serie, ancora … Maria con il suo tumore al seno a 31 anni, per esempio, oppure il polmone canceroso di Lella a 39 o Luciana e il suo linfoma a 27, di anni, o ancora Franco fulminato dall’infarto a 54 …per contare solo le mie … vuoi sapere anche quelle dei miei amici, qui? Inizia pure da dove preferisci. Ma inizia. Spiegaci. Perchè tu sarai pure infallilbile, però cose come queste noialtri non riusciamo a capirle … per quanto ci sforziamo … no … non riusciamo proprio… fiodor: Diario di Guerra – 02 aprile 2010 Il tizio dietro è un pò che mi sta appiccicato a una ventina di centimetri dal paraurti. Ha la testa rasata, gli occhialoni da sole e una Ferrari nera. Impaziente flescia, si sposta ora un pò a destra, ora un pò a sinistra. Ma non lo lascio passare. Io odio quelli in Ferrari. Odio la loro boria, la loro ostentazione di ricchezza. La loro stupidità che gli ha fatto sprecare quella barcata di soldi solo per tirarsela. Non è che ce l’abbia in particolare con la Ferrari. Odio anche quelli che hanno la Porsche, in particolare “il Cayenne”. Quelli che costringono il panzone dentro spiderini decapottabili ed esibiscono calvizie al vento. Quelli che la Pasqua la passano nella casa in campagna sulle colline senesi, che l’estate la trascorrono nella loro villettina in Versilia, che ogni capodanno si fanno la loro immancabile settimana bianca nella baituccia in Trentino o Val d’Aosta. Quelli che ti invitano a una pizzata nel loro attico al centro. Odio quelle che ogni compleanno fanno una festa con taaaaanti amici, da dover addirittura noleggiare una discoteca intera solo per esibire i loro cellulitici cinquant’anni. Quelli che non hanno guadagnato nulla col sudore della fronte, mai lavorato un giorno nella vita, che non hanno alcun merito, alcuna competenza, men che meno titoli, nessun talento, niente di niente tranne il sapere truffare gli altri, criminali. Bevono, si abbuffano, ridono grassamente, sprecano, accumulano ricchezza su ricchezza, non rendono mai conto a nessuno. Ormai sono arrivato a 160, il tizio in Ferrari sempre attaccato al culo, sempre più impaziente. A una ventina di metri dall’autovelox, all’improvviso scarto a destra e inchiodo. Lui mi passa velocissimo, finalmente, e si volta a guardarmi. Bravo coglione, così vieni in primo piano nella foto. Vaffanculo, và! fiodor: Diario di Guerra – 20 aprile 2010 Gli esami non finiscono mai. Mi siedo al solito posto al primo banco, quello da cui ho seguito l’intero corso. Ho elaborato una strategia: sono venti domande in una sola ora, mica tanto tempo. Bisogna saperlo gestire, il tempo. Alcune domande sono di teoria, altre sono piccoli problemi per cui devi fare dei calcoli. Facile che ti incasini, in quei calcoli, così l’esercizio non riesce e devi riprovarci, perdere altro tempo. Facile che vai in confusione. Allora: meglio spararsi prima velocemente tutte quelle di teoria, e assicurarsi un numero sufficiente di risposte date, poi affrontare i problemi e i calcoli con più calma. Quando mi consegnano i fogli, però, mi tremano le mani per la tensione. Decido allora d’impulso di mandare a quel paese qualsiasi strategia e di rispondere alle domande una via l’altra, nell’ordine in cui mi capitano. Dopo mezz’ora ho finito tutto. Ricontrollato tutto. Fatto bene tutto, ne sono sicuro. Il respiro ritorna al suo ritmo normale. Mi sposto col corpo e faccio in modo che Cristina, subito dietro di me, veda tutte le mie risposte. E Martella che sta dietro di lei, e così per l’intera fila. All’orale becco l’unico ingegnere elettronico in una commissione di ingegneri edili e architetti. Il corporativismo ci fa familiarizzare e partiamo col raccontarci le rispettive carriere. Intanto lui sfoglia svogliatamente l’elaborato d’esame. Non approfondisce. Un pò mi dispiace perchè l’ho fatto veramente bene, quasi desidererei un pò di challenge, divento sfrontato. Poi ritorno sulla terra e mi dico che se proprio non mi vuole domandare nulla, tutto sommatoè meglio così. In fin dei conti io devo solo passarlo, ‘st’esame. Dopo un quarto d’ora di chiacchiere, una domanda me la fa. Io comincio a sciorinare la risposta e se non mi ferma lui gli metto giù tutto il programma. Si alza, mi dà la mano, mi consegna l’attestato di certificazione e mi fa andare. All’uscita i colleghi mi ovazionano, mi danno il cinque, si complimentano. Io sono soddisfatto. Subito dopo, la solita autoanalisi. Ero preparatissimo, come sempre. Anche troppo, come sempre. L’efficienza per me è sempre stata minore di uno: lo sforzo di gran lunga maggiore del risultato. Non ho mai capito se faccio così perchè ho un forte desiderio di successo oppure una forte paura di fallire. Essendo pessimista e distruttivo, propendo per la seconda. Anche all’università, mentre una folla di studenti tentava gli esami con metà, due terzi di programma fatto, e spesso riusciva a cavarne un diciotto, un venti, io non mi accostavo alla seduta d’esame se non avevo assolutamente studiato e approfondito e esercitato tutto. Col risultato che molti in quella folla hanno guadagnato tempo a scapito della votazione. Molto più efficace, oltre che efficiente. In ultima analisi, intelligente. Io no. Nessuno mi ha fornito il libretto d’istruzioni e allora sono andato a istinto, a sensazione. E ho sbagliato. E sbaglio ancora oggi, uguale. Non è vero che si cambia con l’esperienza, in certe cose non si cambia mai. fiodor: Diario di guerra – 15 giugno ‘10 17 minuti di corsa, 3 di camminata, poi altri 17 di corsa e altri 3 di camminata. Totale 40 minuti. Diligente eseguo il programma di allenamento che mi porterà in “facili passi” a prepararmi una maratona a cui non parteciperò mai. Il bluegrass che mi sparo nelle orecchie cerca di tirarmi su il morale. Così mi riporta alla leggerezza di Dallas, sento sotto le mani il volante della Chevrolet Corsica che dolcemente scivola sulla 75 verso downtown, mentre Peppe continua a riprendere tutto ciò che capita a tiro. Ogni tanto rispolvero quella videocassetta così demodè ormai, la rimetto sù, la respiro quasi ... tu, così prorompente, genuino, che te ne sei andato due anni fa, all’improvviso, senza avvisare, quasi fosse uno dei tuoi scherzi ... avevi solo la mia stessa età. Il banjoista degli Union Station pizzica le sue corde direttamente nel mio stomaco. Nicola suona il banjo. Sento sulla schiena l’umido del terreno sotto il sacco a pelo quando mi hai trascinato a Ponderosa per la convention di bluegrass, e quando mi hai presentato Beppe Gambetta, e quando Bela Flack e i New Grass Revival ci hanno incantato quella notte che abbiamo preso sonno solo all’alba, e quando dopo tre giorni ininterrotti di strumenti acustici abbiamo desiderato solo puro, duro, sporco metal. Le palpebre mi si appesantiscono per la stanchezza del viaggio a Barcellona, nella 127 di Genny tutti e tre rannicchati a dormire in una piazzolla sull’autostrada ... un “Marrakech Express” anni prima di Salvatores, e il posto che avevamo progettato di raggiungere che non troviamo e allora decidiamo di fermarci lì, dove siamo arrivati, che tanto intorno a Barcellona un posto vale l’altro ... e le cene al risparmio: “il pane è gratis? E allora: otro pan, otro pan ...” Passo a Wish you were here. Sento la tua voce, allegra come sempre, che mi urla al citofono: “ok, ok, scendo subito” e invece, al solito, scendi dopo un quarto d’ora ... attraversiamo la piazza, imbocchiamo il corso, quasi corriamo ... sento le occhiatacce degli adulti quasi offesi alla sola vista dei nostri capelli lunghi, si scansano manco fossimo appestati ... a noi diverte tutto questo, quasi lo provochiamo ... abbiamo il mondo in mano, questa è la verità, Enzo, solo che non ce ne rendiamo conto ... sento il liscio della plastica nera che ricopre il disco dei Pink Floyd che stiamo acquistando ... a dire il vero, che stai acquistando tu, le mie finanze non me lo permettono, ma a me va benissimo così ... tra pochi minuti lo ascolteremo sull’ HiFi nella tua stanza che è diventata la nostra tana ... vedo la penombra in cui ci piace così tanto passare ore intere, anche a dir niente a volte ... tu dici sempre: “un amico è quello con cui non ti senti in obbligo di dover necessariamente dire qualcosa ... è bello anche semplicemente starci assieme in silenzio”. Quanto mi mancano i miei amici, quanto mi manca la mia vita passata. Che è passata senza che me ne rendessi conto, come in un film mal riuscito, visto in uno di quei cinema fatiscenti di periferia ... esco, è quasi il tramonto, vedo il muro scrostato, il cartellone strappato, resti di foto e scritte sul marciapiede poi portati via da un soffio improvviso di vento che alza la polvere e mi costringe a chiudere gli occhi ... la colonna sonora è il tema dei Vitelloni. Io vado a vela, ormai. Dove vuole il vento. E se cambia mille volte, mille volte cambio io. Non ho più una direzione preferenziale, non so più quale direzione prendere, non riesco più a capire in quale direzione andare. L’impotenza mi si aggrappa alle spalle e me le fa curvare, mi pesa sulla testa ... mi fa male al collo. Io non riesco più a risolvere nulla. Per quanto mi sforzi, per quanto cerchi soluzioni, non riesco. La gente non mi ascolta più, non mi prende in considerazione più. O forse io non riesco ad applicarmi con la stessa energia di prima. E’ quasi un anno che sono in esilio, per esempio, e non sono stato ancora capace di mandare questi pazzi dove meritano e trovare una diversa strada. E questo non perchè avessi avuto insuccessi: è che non ho avuto neanche controparti disposte semplicemente ad ascoltarmi. Una battaglia persa a tavolino, senza battagliare, d’ufficio. Il modo più deprimente di perdere una battaglia perchè quando perdi una battaglia così ci perdi in realtà anche la faccia. Perciò, navigo a vela, ormai. Ho mollato il timone. Se c’è bonaccia paziento, aspetto ... indolente. Se c’è burrasca, meglio così almeno mi diverto un pò. E se dovesse (finalmente?) arrivare l’onda anomala ... fiodor: Diario di guerra – 28 ottobre ‘10 Il Crotalo è sconfitto. La guerra non è finita, però. Altri nemici sono apparsi nel frattempo. Ma: il Crotalo è sconfitto. The Owl. fiodor: Diario di guerra – 11 novembre ‘10 - Volevo fare la rockstar Volevo fare la rockstar. Rovinarmi le dita sulle corde della chitarra, ore e ore di scale e riff. Al punto da perdere sensibilità, una coperta spessa e dura sui polpastrelli. Al punto che le dita volano da sole sui tasti. E i bending sono maledetti e precisi. E i pull-off sono sorprendenti e squillanti. E il plettro salta sulle corde, non fallendo un colpo. Volevo fare la rockstar. E iniziare il concerto sul palco completamente buio. Poi, un riff di basso inizia a volume molto basso, poi in crescendo, e intanto un faretto illumina solo il bassista. E poi si aggiunge il batterista: prima piano piano, poi in crescendo. E poi entro io col mio riff lancinante e graffiante. Al culmine dell’intro musicale, una pausa da 4/4, tutto il palco di nuovo al buio. Poi, come una stella che esplode, partiamo tutti e non ci fermiamo più. Grande concerto! Volevo fare la rockstar. E vivere da nomade, un concerto qui, uno là. Poi in sala d’incisione, poi una jamming session. La birra col resto della band prima di salire sul palco. E decidere assieme la scaletta, tirando a sorte. E cenare alle tre del mattino tutti assieme, poi rimettersi in viaggio per la prossima tappa e dormire nel pullman. Volevo fare la rockstar. E scrivere i testi dei nostri pezzi. L’importanza di vivere, non fingere di farlo. Di dire no. Di non abbassare la testa, di lottare. Di gioire e amare. Di emozionarsi. Di sognare, soprattutto. Di mantenersi bimbi. Di rispettare e pretendere rispetto. Anche, aprire gli occhi e quando è il caso (e, secondo me, oggi è il caso) di prendere il fucile e andare sulle montagne. Resistenza! Volevo lanciare messaggi. Volevo fare la rockstar. Faccio l’ingegnere. Meglio dire che faccio l’impiegato, rende meglio l’idea. Con tutto il rispetto. Vivo in uno stanzone a luce artificiale di cinque metri per quindici, in uno di quei famigerati cubicoli eretti sull’altare del dio open-space. Con una decina di altri sventurati. Ci pestiamo i piedi e massacriamo le orecchie quando siamo più di due in conference call, il che accade praticamente di continuo. Abbiamo cuffiette wireless, così ci vedi andare in giro per quei cinque metri per quindici mentre parliamo all’aria, girando come bestie in gabbia ... e infatti, lo siamo in gabbia. E, secondo me, anche un pò bestie. Beviamo caffè da macchinetta che ci ricorda, se va bene, strani intrugli orientali. Se va male ... lasciamo perdere. Pranziamo a base di 4 salti in padella dissurgelati al momento, che davvero ci fanno saltare l’intestino. Mi aspetto che prima o poi a qualcuno spunti all’improvviso dalla pancia il mostriciattolo di Alien. Il mio lavoro, in due parole, è: calmare clienti incazzati e far lavorare colleghi indolenti. I miei capi dicono che questo si chiama “Operations management”. E che io sono, infatti, un manager. Avrei dovuto dire: (tattaratàtà) un MANAGER. Bello. Molto altisonante. Quando poi si spingono fino a dire che sono: (tattaratàtà) un LEADER, bè allora ... guarda: sbrodolo dalla felicità. La sera (perchè non si riesce mai a smettere in orario decente) mi incolonno ad altri disgraziati e passo passo, ma proprio letteralmente passo passo, rientro in una casa vuota. Vado in bagno, infilo il pigiama, chiamo casa per la checklist quotidiana. Poi mi preparo la cena. Che il più delle volte vuol dire aprire una scatoletta e contornarne il contenuto con qualche sott’olio. Se sto in vena, magari mi regalo anche un biscotto, un pezzetto di cioccolato. Vano tentativo di alleviare ‘st’ amarezza di sottofondo. Qualche sera torno a imbracciare la chitarra. Stasera provo una scala. Una semplice, di base: provo la scala blues in La. Viene male, soffoco alcune note, il mignolo non spinge come dovrebbe e quella nota mi esce sgraziata, come storta. Con la destra non alterno pennate in giù e in sù, mi incasino. Provo un pezzo delle Orme. Il riff viene, bene o male, ma servirebbe la chitarra d’accompagnamento. Mi manca la mia batterista. E poi: il basso. Ragazzi, se avete suonato sapete che si può suonare assieme, ma è solo quando entra il basso che il suono diventa quello di una band. D’accordo, lascio perdere e la chitarra ritorna sul suo stand. Ve l’ho già detto? Io volevo fare la rockstar. fiodor: Diario di guerra – 9 marzo ’11 – Aix-en-Provence 21 in punto. Mi bruciano gli occhi. Il francese davanti mantiene il limite dei 110, manco fossimo ancora da quella parte. E’ un pezzo che abbiamo attraversato la frontiera e perciò, insolitamente patriottico, gli piazzo i fanali sul culo. Paziente come lo si può essere con i matti, lui scarta di lato e mi lascia infilare, frenetico, nel corridoio. Non che avessi chissà quale urgenza di rientrare. A casa mi aspetta una cena fredda e solitaria. E’ che mi rode buttar via dodici ore di auto per due ore di riunione. Quanta vita triturata sul totem del dio-cliente. Così affondo, ‘fanculo gli autovelox. Poi però un po’ rallento. E’ che approccio quasi Genova (ciao, Fede!) e qui la A10 si trasforma in una gimcana impazzita, prima di sterzare all’improvviso verso nord einerpicarsi, quasi sonnolenta, direzione Milano. Aix-en-Provence è proprio come dice Brizzi: “Ma l’hai visto che cazzo di posto? Puta madre! Non è una città, è un ricovero di pensionati…” (Enrico Brizzi, Bastogne, 1996, Baldini & Castoldi). Il mio giudizio è distorto dall’uso che ne faccio di ‘sti posti dove vado errando, agnello sacrificato al business: sei ore di auto sulla schiena, cena a precotti al ristorante dell’hotel, dormiveglia tra guanciali scomodamente soffici, sveglia alle 6:30, colazione di plastica con caffè annacquato, riunione preparatoria, poi: riunione col cliente-pranzo col cliente-riunione col cliente seconda parte e rientro con sei ore di auto sulla stessa schiena di prima. Dunque, proprio niente Aix-en-Provence. Ciononostante, è proprio un posto del cazzo. Stanco. Delle ore di auto sulla schiena, delle riunioni preparatorie, di ‘sto lavoro, di ‘sta vita di cui non ci ho capito granchè. E Francesco oggi ha rifiutato un 18. E bisogna parlare con Laura che è stata così colpita dalla storia di Yara. E speriamo che la nuova terapia di Nunzia funzioni bene. E che si fa, Laura la iscriviamo a Milano o ad Avezzano per il liceo? E che succede quando questi giapponesi ci acquisiscono? E quando si saprà qualcosa? E perché non riesco più a suonare? E perché non ho più tempo per correre? Come mai non ho più voglia di scrivere? Stanco. Pompo al massimo lo stereo. Il suono mi stordisce, non mi fa pensare. Bello. L’attacco di The Unforgiven è incredibile, devo provarlo. Ma se non suono quasi più … mi manca il fiato … stanco … e se proprio in mezzo a questa gimacana mi riposassi, se chiudessi gli occhi, solo un attimo … tanto stanco … solo un attimo … per vedere se poi è tanto difficile morire … dai, così … il francese dalla sua posizione arretrata nota con solo un secondo di ritardo la traiettoria scomposta, quasi sgraziata e si attacca al clacson … riprendo di scatto sia coscienza che corsia e vado … mancano ancora quasi due ore e mezza per casa. fiodor gwenog: Madonnuzza bedda, Anto', che paura... pur sapendoti sano e digitante, mi hai fatto prendere uno spavento! fiodor: gwenog ha scritto:Madonnuzza bedda, Anto', che paura... pur sapendoti sano e digitante, mi hai fatto prendere uno spavento! ... sono attimi, Fede ... di riposante incoscienza ... o meglio, non di incoscienza: si tratta di cosciente forzata inattività, soprattutto mentale ... una specie di oblio ... cioè: non è come un colpo di sonno. E' come vedessi un film al rallentatore, con la colonna sonora azzerata: ti accorgi che stai lasciando andare, eppure osservi tutto in terza posizione senza un movimento, come fossi in trance ... penso sia una reazione del mio organismo. Anni fa mi è capitato di svenire di frequente. Chessò, succedeva qualcosa che magari richiedeva la mia attenzione, o una mia azione, o che mi preoccupava particolarmente e ... sbam, io svenivo. Mi capitava di giorno, di notte ... il medico mi disse che dovevo ritenermi fortunato, perchè era il mio organismo che mi proteggeva. Cioè: quando il livello di stress cui ero sottoposto superava un certo limite, visto che io coscientemente gli permettevo di superarlo, il mio organismo metteva le cose a posto e mi "forzava" un riposo: mi metteva letteralmente steso, mi faceva svenire! Penso che ora mi stia accadendo qualcosa di simile: non svengo più, ma rimango "coscientemente inattivo". Mah .... Antò Maigret: mi viene da dire una sola cosa su questo diario di guerra: downshifting leggi ADESSO BASTA di Simone Perotti, ed. ChiareLettere io facevo più o meno la stessa vita e ci ho dato un taglio non così drastico come si racconta nel libro ma sono sulla buona via un po' di esperienza è narrata sul mio blog Solo gli utenti registrati possono vedere i link!Registrati o Entra nel forum! buona sorte! fiodor: Maigret ha scritto:mi viene da dire una sola cosa su questo diario di guerra: downshifting leggi ADESSO BASTA di Simone Perotti, ed. ChiareLettere io facevo più o meno la stessa vita e ci ho dato un taglio non così drastico come si racconta nel libro ma sono sulla buona via un po' di esperienza è narrata sul mio blog Solo gli utenti registrati possono vedere i link!Registrati o Entra nel forum! buona sorte! grazie del consiglio, ho dato un'occhiata al blog: interessantissimo, mi sa che ci tornerò spesso ... fiodor Maigret: fiodor ha scritto: Maigret ha scritto:mi viene da dire una sola cosa su questo diario di guerra: downshifting leggi ADESSO BASTA di Simone Perotti, ed. ChiareLettere io facevo più o meno la stessa vita e ci ho dato un taglio non così drastico come si racconta nel libro ma sono sulla buona via un po' di esperienza è narrata sul mio blog Solo gli utenti registrati possono vedere i link!Registrati o Entra nel forum! buona sorte! grazie del consiglio, ho dato un'occhiata al blog: interessantissimo, mi sa che ci tornerò spesso ... fiodor grazie, spero ti sia utile per spunti e idee di cambiamento ti segnalo anche dello stesso autore la continuazione di adesso basta cioè Avanti Tutta. Il fenomeno è in crescita ed è molto discusso, a volte discutibile, ma non si può comunque ignorarlo. Prima snobbato, adesso all'attenzione di media, sociologi e politici ma va preso con le molle, come tutto ciò che riguarda cambiamenti forti nella propria vita e richiede tanto tempo per la sua realizzazione.... ma il tempo è proprio ciò che avanza una volta prese certe decisioni. Io prima non avevo mai tempo, adesso devo inventarmi qualcosa per riempire le mie giornate...ma mi sto riprendendo la mia vita e la mia libertà buona domenica